Addio a Ettore Mo, l’inviato di guerra dalla parte degli ultimi


“La cronaca – diceva – non deve mai sembrare teatro, dev’essere precisa e puntigliosa”. L’unico teatro che si concedeva era quello naturale, stupendo e quieto che ammirava affacciandosi sul Lago Maggiore dalla sua casa di Dagnente, frazione di Arona. Se ne è andato a 91 anni Ettore Mo, uno dei più grandi inviati di guerra di tutti i tempi. Ma non avrebbe mai usato né gradito l’uso degli aggettivi per descrivere anche il più bel paesaggio. Piemontese di nascita (Borgomanero in provincia di Novara), cittadino del mondo. Era arrivato al “Corriere della Sera” dopo una vita girovaga e avventurosa, che lo aveva portato a intraprendere esperienze tra le più incredibili: sguattero e cameriere a Parigi, Stoccolma, nelle isole della Manica, insegnante di francese a Madrid, bibliotecario ad Amburgo, steward su una nave mercantile britannica. Ma nel cuore gli pulsava il battito del giornalista. Quando approdò a Londra, dove prestò servizio anche come infermiere in un ospedale per incurabili, bussò alla porta dell’ufficio di corrispondenza del “Corriere”, retto da Piero Ottone. Sarebbe diventato il suo direttore qualche anno dopo e raccontava Mo che Ottone, pur stimandolo, nutriva qualche perplessità per quel cognome breve che “sembrava una sigla”. Ma scorza e stoffa erano una garanzia. Appena nominato alla direzione del giornale, Piero Ottone si rivolse al corpo redazionale con poche, essenziali parole: “Quando scrivete un articolo, indicate sempre il soggetto, il verbo, il complemento oggetto. Gli aggettivi, per favore, lasciateli a me…”. Una lezione di buon giornalismo, ma Ettore Mo non ne aveva bisogno, perché aggettivi, avverbi e giudizi non appartenevano al suo bagaglio. Nello zaino di Mo c’erano un taccuino, una penna, una portatile per scrivere, uno stringato necessario com’era il suo stile. La prima volta fu a Teheran, inviato dal direttore Franco Di Bella, durante la rivoluzione khomeinista. Da quel momento non si sarebbe più fermato: dall’Afghanistan al Nicaragua, dalla Liberia al Messico, dalla Cambogia a Cuba sino all’Afghanistan, delle cui vicende è stato uno dei più grandi conoscitori. Qui conobbe Massud, il “Leone del Panshir” e percorse migliaia di chilometri a piedi e a cavallo con i mujaheddin contro gli invasori russi. Gli appartenevano il sacro fuoco e il dovere della testimonianza che gli hanno tenuto compagnia anche negli ultimi anni, benché in pensione. Di tanto in tanto lasciava la sua residenza sul Lago o l’altra dimora a Londra e partiva per nuove missioni. Nel continente africano e in Sudamerica, sulle tracce degli ultimi, per raccontarne l’anima e il grido di dolore. Con le parole giuste. Gianfranco Quaglia    

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